A tu per tu con Monica Frega

-di Laura Batini

Lo scorso venerdì 24 gennaio, grazie all’impegno delle professoresse Aini, Cerbone e Vassallo , abbiamo avuto il piacere di partecipare ad una lezione della dottoressa Monica Frega, laureata in Bioingegneria presso l’Università degli Studi di Genova e che dal 2018 lavora presso l’Università di Twente in Olanda. La bioingegnera, la cui ricerca oggi si concentra sulla comunicazione neuronale nel contesto di malattie neurologiche, ha presentato ai partecipanti alle Olimpiadi delle neuroscienze e agli alunni della professoressa Aini un’interessante lezione sul funzionamento dei neuroni, come comunicano, il suo lavoro nel campo della ricerca e con i pazienti utilizzando le nuove tecnologie della robotica e della biomedica.

Ho avuto l’opportunità di porgerle qualche domanda.

Volevo chiederle di raccontarmi com’è iniziato il suo percorso da quando ha finito il liceo.

In quarta liceo è venuto a scuola un ragazzo a raccontare il lavoro che faceva e raccontava di queste neuroscienze, degli esperimenti che faceva, di questi topolini con gli elettrodi nella testa e quindi che studiava come loro si muovevano e come i neuroni comunicavano e a me questa cosa del cervello e l’idea di lavorare in laboratorio hanno iniziato ad affascinare tantissimo. Gli ho chiesto “Che cosa devo fare per studiare questa roba qui?” e lui mi ha detto “Ingegneria biomedica”.

Aveva già qualche idea riguardo il percorso di studi che avrebbe intrapreso all’università?

In quarta non tanto. Mi sarebbe piaciuto fare ginecologia o ostetricia, ma ingegneria ha vinto su tutte. Vengo dal classico quindi mi spaventava l’idea di intraprendere questo percorso di studi, ma ho seguito quest’intuizione. Mi sono messa a studiare, il fascino e l’interesse da soli non bastano, ho dovuto lavorare sodo. Ho incontrato un professore molto appassionato a quello che faceva (ovvero ricerca sul funzionamento e la comunicazione tra neuroni, ndr) e mi sono attaccata a lui. Con questo professore ho preparato la tesi della magistrale e fu proprio lui che mi propose di fare il dottorato. È stato tutto prodotto di un fascino che nutrivo nei confronti della materia, di un interesse che man mano è cresciuto negli anni dell’università e della guida di un professore estremamente preparato. Ho fatto tre anni di dottorato a Genova e, una volta terminato, ho dovuto scegliere se continuare con la ricerca o lavorare in azienda. Scelsi la prima che significava trasferirsi all’estero e quindi sono finita in Olanda, nel centro di ricerca di un ospedale. Mi interessava applicare le mie conoscenze, ciò che avevo studiato ad una cosa “più umana”, volevo aiutare i pazienti con quello che sapevo fare, essere utile nell’immediato. Ho iniziato a studiare le sindromi dei miei pazienti cercando di capire come i loro neuroni comunicano, perché comunicano male e cosa fare per aiutarli. Ho fatto quattro anni lì e a quel punto mi hanno offerto una cattedra in un’università (sempre in Olanda, ndr).

Lei quindi insegna ora

Insegno e continuo a fare ricerca. Applico sempre la mia conoscenza di bioingegnere affiancata da biologi e medici. Adesso lavoro in un team formato da due bioingegneri e due medici.

Le piace insegnare?

Moltissimo. È bello vedere gli occhietti dei miei studenti che si gasano quando ascoltano la lezione, è davvero una sensazione impagabile. Continuerò ad insegnare penso. Anche solo preparare con loro le tesi, aiutarli, passar loro una passione è la cosa più bella che si possa fare.

 Lei ha detto che fare ricerca in Olanda e in generale all’estero e farla in Italia è diverso: cosa manca qui da noi?

Allora secondo me la formazione italiana è perfetta. Io non cambierei assolutamente nulla, vedo tanti studenti che sono su e io insegnando loro vedo che sono molto meno preparati. La nostra formazione è migliore per il modo in cui siamo educati, per come è strutturato il nostro percorso di formazione, università, liceo… è sicuramente molto meno sul pratico, però impariamo meglio. Quello che c’è di diverso è che in Italia ci sono belle teste: il mio professore di Genova con i pochi soldi che aveva a disposizione e con le grandi idee che aveva in mente ha fatto cose che in Olanda nemmeno avrebbero pensato di fare. Come teste, passione e possibilità a noi non manca nulla. Quello che c’è in Olanda e all’estero sono infrastrutture più belle, apparecchiature e campus più belli e più soldi, se proprio vogliamo metterla sul pratico ecco.

Lei adesso è in Olanda: tornerebbe qui? Che progetti ha per il futuro?

Sicuramente. Quando sono andata in Olanda pensavo sarei rimasta solo un anno: avevo il fidanzato qui, la mia famiglia e non pensavo ci sarei rimasta cinque anni. A me piacerebbe tanto ritornare. A parte il clima, gli affetti e il cibo (ride, ndr) io sono stata formata qui. Non sono scappata dall’Italia, volevo solo diventare più brava per poter aiutare meglio. Se adesso mi proponessero alle stesse condizioni lavorative di tornare a Genova lo farei perché ho sempre visto il mio periodo in Olanda come momento di crescita personale. Vorrei tornare in Italia per insegnare ai ragazzi italiani, per lavorare e fare ricerca con professori italiani nel paese che mi ha formata.

Che consiglio darebbe a chi vorrebbe intraprendere il suo percorso che è difficile fare qua?

Quella volta che ho sentito quel ragazzo parlare, pensare al lavoro in laboratorio mi è sembrato impossibile, una cosa di quelle che solo uno su mille arriva a fare, che si vede solo nei film. Oggi dico che è assolutamente possibile. In ricerca bisogna partire da un’intuizione, da un interesse appassionato che se non hai ti ammazzi perché in ricerca il risultato non arriva subito, anzi a volte non arriva neanche. La passione ci deve essere, così come l’impegno e la volontà di sacrificarsi anche. Bisogna, questo secondo me in generale, andare dietro ad una passione non al lavoro che ti porta soldi perché solo così la vita dà grosse soddisfazioni. Non scegliete economia perché così troverete posto subito perché poi lavorerete per quarant’anni e farlo con passione è la cosa più importante.

Lei ha mai avuto un momento di difficoltà in cui ha pensato “Cavolo ho sbagliato, forse avrei dovuto fare qualcos’altro”?

Più di uno, non all’università, ma sul lavoro sì. Fare ricerca è difficile, perché non avere il tempo indeterminato, che pochi riescono ad ottenere, e andare avanti a borse è davvero una sfida. Sei sempre molto incerto e sei spesso obbligato a spostarti. Io non sono carrierista, per me la famiglia viene prima e per me questo è davvero il tasto dolente della mia carriera. A volte guardo i miei vecchi compagni di corso che ora lavorano in azienda in Italia e penso che forse avrei potuto fare come loro. In questi momenti torno al motivo per cui sono in Olanda, ovvero la mia passione : ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace da matti e sono felice.

Un’ultima domanda, un po’ fuori corso: si sente sempre parlare del fatto che le donne, nel campo scientifico, siano una minoranza. Lei ha mai sentito questa chiamiamola “discriminazione”?

A biomedica ci sono tante donne, forse perché è più umana potremmo dire rispetto ad ingegneria meccanica. È un discorso molto ampio. È evidente che i professori siano tutti uomini, questo sì. Anche in Olanda ci sono molti dottorandi donne, ma poi di fatto chi continua sono gli uomini, sono poche le professoresse. In Olanda c’è quest’idea che se c’è il lavoro lo prendi perché devi bilanciare e a me non convince.  Io voglio avere il lavoro perché sono più brava: se siamo io ed un ragazzo io non voglio prendere il suo posto perché sono donna, mi sembra di essere trattata come una cretina. Pari opportunità non significa che si debba aiutare di più la donna, che se antepone la vita familiare alla carriera lo deve fare per sua scelta. Pari opportunità significa non far sentire la donna meno di un uomo.

Pari opportunità potremmo quindi riassumerlo in “metteteci nelle condizioni”

Esatto sì.  Noi il lavoro lo vogliamo perché lo meritiamo.

 

 

 

 

 

 

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